Non c’è più niente  da dire su Romeo e Giulietta. Oppure sì?  Come non interrogarsi sul perché questa storia non annoi mai, anche se la conosciamo fin troppo bene? Come non domandarsi  perché, nonostante il finale e le vicende siano arci-note, continua a emozionarci?

Stefano Tommasini, storico della danza, incontra gli studenti dell’Università degli Studi di Milano per parlare del classico shakespeariano in vista della versione coreutica che Roberto Zappalà presenterà sul palco dell’Elfo Puccini, tra qualche giorno. E per convincerci a vederlo in questa nuova veste, per farci capire quanto un classico possa essere sempre sorprendente, chiama in causa alcuni celebri adattamenti passati. In primis quello di George Balanchine in The Goldwyn Follies (di George Marshall, 1938) dove  i due giovani innamorati si rialzano, riprendono vita attraverso il ballo e con i loro movimenti coordinati mostrano il superamento del conflitto Montecchi-Capuleti.

Se infatti il finale dell’opera di Shakespeare è stato concepito ‘tragicamente’ e tale è sempre rimasto, la danza ci insegna invece che perfino la morte può essere riscritta. C’è infatti nella danza, incalza Tommasini, un potere di creazione straordinario, che può ridefinire lo spazio e il tempo, persino in questa storia ‘immutabile’.  Perché la danza è un pensiero in progressione: è per definizione movimento, e quindi può andare in direzioni diverse. Potrà sembrare eccessivo: il primo pensiero dello spettatore è che il lieto fine stoni, quasi fosse illecito. In realtà risponde a una precisa linea di pensiero: “Dance, dance, otherwise we are lost”, diceva la grande Pina Bausch, volendo intendere come il movimento sia profondamente legato alla creazione, alla trasformazione del mondo. E così la danza può permettersi di cambiare tutto, perfino Shakespeare.

Un’altra versione straordinaria è quella del Romeo and Juliet di Kenneth Macmillan: Romeo (Rudolf Nureyev) scopre Giulietta (Margot Fontayn) nella morte apparente, e vuole a danzare l’ultima volta con lei. Pare una forzatura dare movimento a ciò che non dovrebbe averlo, e invece il risultato è ancora più di impatto che nella resurrezione di Balanchine: l’espediente non solo sorprende, ma comunica uno spaesamento struggente.  La danza a corpo morto è qualcosa di mai visto prima, quasi una contraddizione, che rompe le regole della logica: difficilissima da realizzare e d’impatto straordinario!

In entrambi i casi, sottolinea Tommasini, si va oltre le aspettative dello spettatore, e ciò è maggiormente efficace, proprio perché si tratta di una storia così conosciuta. Ci sono state molte reinterpretazioni, e trovare nuove idee è una sfida continua, che adesso è stata raccolta da Zappalà.  “Non voglio anticipare nulla – conclude – la cosa migliore è essere spettatori curiosi e andare a scoprire uno spettacolo e un testo in perenne movimento”.

Giulia Liti

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView