«Alcune cose sono attratte dall’acqua e si comportano in modo diverso nelle sue vicinanze», scrive Olivia Laing in Gita al fiume, il saggio dal titolo woolfiano, pubblicato nel 2011, che è anche memoir di un brandello di esistenza. Di Virginia Woolf, Laing sembra ripercorrere un cammino al contempo fisico e immaginifico: riflette sugli ineffabili nodi che stringono la vita ai luoghi, delinea la traiettoria che la memoria riveste nella creazione artistica, narra infine un’identica passeggiata compiuta lungo le rive dell’Ouse e conclusasi tuttavia, per l’autrice di Orlando, con le tasche di un cappotto zeppe di pietre e sassi. Una sorprendente affinità agisce tra la giornalista britannica – colta in una «una di quelle piccole crisi che periodicamente affliggono la nostra vita, quando le impalcature che ci sostengono sembrano destinate a crollare» – e Woolf, di cui il libro restituisce l’ossessione acquatica, la ricchezza di immagini marine che ne costellano i romanzi, soprattutto il desiderio e la necessità di affondare – ecco, ancora una metafora liquida – negli abissi della realtà, facendo ricorso a una fluidità dell’essere che confonde e sovrappone generatività e annientamento. Ed è una medesima, ancipite relazione con la dimensione acquatica dell’esistenza ad accomunare oggi le biografie di Carol, Anna e Bonnie, tratteggiate con perizia chirurgica da Alice Birch in Anatomia di un suicidio e rese con maestria sul palco del Piccolo Teatro Grassi dalla regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni: “nuotando” è non a caso il titolo che la drammaturga e sceneggiatrice inglese, classe 1986, assegna a ben tre scene del testo; un amo da pesca, la riva del lago Serpentine, ricette a base di pesce, galleggiano tra le parole come snodi tematici, disposti lungo il tragitto delle vite narrate; l’acqua stessa appare – grazie anche al disegno video di Maddalena Parise – ora come placenta, ora come sudario, ora come coperta nella quale le protagoniste annegano e cercano protezione, rinascono, sopravvivono, si sommergono per un istante oppure per sempre.
Fluida è d’altra parte la lingua, tradotta da Margherita Mauro, con cui Birch racconta tre generazioni di donne – madre, figlia, nipote – e con loro gli amanti, i familiari, gli amici che ne punteggiano le vicende; fluviali sono le connessioni, le eredità che le legano a dispetto del tempo che invece le separa, e che si riflettono in dettagli aneddotici, in tic linguistici, in simili sogni e incubi; soprattutto carsiche sono quelle corrispondenze che stringono Anatomia di un suicidio e l’arte teatrale della compagnia lacasadargilla a una galassia di artiste e artisti, di testi e scritture. Sin dalla sua fondazione, il collettivo romano ha infatti attraversato una babele letteraria sterminata, rifuggendo da qualsiasi grigia attitudine libresca e evidenziandone invece i sottilissimi fili tesi tra le parole scritte, tra questi e gli esseri umani, infine tra le persone stesse: nonostante – o in forza di – tutto quel male e quella meschinità che sembrerebbe invece allontanarle, spezzarne le parentele emotive, ridurle a monadi solitarie. Ecco che questa creazione, al suo debutto nazionale, assurge così a summa di una ricerca densa e stratificata, in cui Olivia Laing – autrice amatissima, di cui la compagnia ha tradotto in performance itinerante Città sola – e il suicidio di Woolf, o le suggestioni sul futuro apprese nella pluriennale frequentazione della letteratura fantascientifica, rilucono nell’incontro tra l’opera di Birch e il lavoro del gruppo. Ed è qui, forse, una delle cifre più evidenti dell’approccio che lacasadargilla rivela tanto negli spettacoli quanto nei progetti, e che sembra avere pochi eguali nel panorama nazionale: più ancora che come registi o teatranti, i membri della compagnia guidata da Ferlazzo Natoli dimostrano una straordinaria attitudine da lettori, o piuttosto lettori forti, come li definirebbe un editore.
Li immagino alternare l’esperienza della lettura come “meravigliosa solitudine” – per citare il titolo di un indimenticabile saggio di Lina Bolzoni – a quello di un rituale condiviso, ad alta voce, in cui la comunicazione è possibile solo ricorrendo alle parole altrui, e in ciò trova la propria ragion d’essere più profonda. Autori e autrici pressoché sconosciuti al pubblico nostrano – Andrew Bovell, Jeff VanderMeer, Ted Chiang, e adesso Birch – hanno così trovato nel lavoro di Lisa Ferlazzo Natoli non soltanto una cassa di risonanza, ma soprattutto la possibilità di riverberare e deflagrare in un ipertesto di immagini e suoni interminabile. E Anatomia di un suicidio è, in prima istanza, un organismo complesso e multidirezionale, che invita lo spettatore a collegare tra loro indizi e prove disseminati lungo lo spettacolo e, partendo da essi, a divagare nella propria memoria di spettatore e di lettore, oppure – ma è poi così differente? – di donna, di uomo. Anche per questa ragione, lo spettacolo appare come un esito naturale, e tuttavia non scontato, di When the Rain Stops Falling e della sua magistrale esplorazione sulle genealogie e sulle eredità traumatiche. Analogo, in questo senso, è lo sguardo su una saga familiare condannata da una colpa primigenia – nel testo di Bovell, le pulsioni sessuali e violente di Henry Law; qui, le tendenze autolesioniste e suicide di Carol – che si incunea tra le generazioni minandone la felicità; significative sono le corrispondenze simboliche, e nello specifico acquatiche – i pesci, la pioggia – che mettono in dialogo le due opere. Rilevante, tanto nel lavoro vincitore di tre premi Ubu nel 2019 così come in Anatomia di un suicidio, è infine una speculare preminenza, scenografica e registica, data a una serie di oggetti, correlati di memorie e stati d’animo: in When the Rain Stops Falling era un tavolo attorno al quale correvano le spole delle conversazioni, delle accuse e dei rimorsi; qui sono un giradischi, alcuni palloncini colorati, una vasca da bagno, inconsapevoli souvenir di lacerti biografici. Compaiono per brevi istanti, mute presenze accanto ai corpi delle attrici e degli attori, poste a completamento della scena neutra disegnata da Marco Rossi e dominata da tre porte allineate sul fondale: eppure è a loro, a queste insignificanti e quotidiane presenze, simili a pietre miliari incaricate di scandire le tappe di un’intera vita, che la regia affida il compito di testimoniare le forze di attrazione e di repulsione, i campi magnetici che reggono il tessuto relazionale ricamato da Birch.
E tuttavia le somiglianze di famiglia tra l’opera di Bovell e Anatomia di un suicidio – ma anche tra questi e i testi toccati dalla compagnia nel corso delle diverse edizioni del festival IF / Invasioni (dal) Futuro, come la Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer – trovano il proprio climax in una similare volontà di sconfiggere l’inesorabile linearità del tempo, costruendo dispositivi scenici e drammaturgici che condensino, in una vertiginosa singolarità, epoche e luoghi distanti: così da rivelare di quanti ieri, e di quali domani, è colmo questo qui e ora che condividiamo. Nell’opera di Birch, l’approccio sincronico è condotto al suo parossismo, con tre linee temporali che scorrono parallele sulla pagina e sul palco: quando si apre la scena è contemporaneamente il 1972 di Carol (Tania Garribba), sopravvissuta a un primo tentativo di suicidio; il 1999 della figlia Anna (Petra Valentini), sul crinale di un ennesimo episodio depressivo; il 2033 di Bonnie (Federica Rosellini), in cerca di una via di uscita dal proprio destino. Posture e parole sembrano così rimbalzare da un’epoca all’altra, da un giorno all’altro, rincorrersi e forse toccarsi, determinando conseguenze impreviste; e il commovente, impressionante lavoro attorale, diretto con attitudine orchestrale da Ferlazzo Natoli e Ferroni, consegna la complessità sinfonica della partitura verbale, amplificandone tuttavia i sensi grazie alla puntuale drammaturgia del movimento disegnata da Marta Ciappina. Gli sguardi si susseguono da un lato all’altro del proscenio, i passi invadono per brevi istanti gli spazi temporali altrui, e gli anni caracollano, sfiorandosi nelle corse che a tratti abitano il fondo della scena. In questa coreografia di microscopiche variazioni di posizione, in questa prossemica che si fa cronologia, si sedimenta il basso continuo di una melodia di voci e ritmi, capaci di edificare un concertato di amore, passione, rimpianto.
Certo, è con un filo di dolore che sono cucite le esistenze dispiegate sul palco: quel dolore per il quale Carol vuole soltanto «andare sotto, costantemente»; che agisce in Anna come una lente chiarificatrice, in grado di farle vedere «l’intero universo nella capocchia di uno spillo»; che fa allontanare Bonnie da qualsiasi relazione. Eppure – ed è solo uno dei tanti meriti di questo spettacolo – Anatomia di un suicidio appare animato da una vitalità cristallina, da una paradossale e ciò nonostante luminosa consapevolezza di quanta libertà sia inscritta nelle parabole esistenziali raccontate: ché da troppa coscienza del senso della vita, e non da una sua svalutazione, sembrano mosse le donne di questo piccolo capolavoro della drammaturgia contemporanea.
Risuonano così alla memoria i versi di Wisława Szymborska, quelli in cui descrive La stanza del suicida e ne mette in evidenza «una lampada buona contro il buio / una scrivania con sopra un portafoglio, giornali», o ricorda che «una mosca ronzava, ossia era ancora viva». La casa di Anatomia di un suicidio – una quarta protagonista, centro attrattivo delle tensioni e ambiente onirico – gronda di una vita che appare tanto più forte quanto più netto, irremovibile, emerge il desiderio di porre fine a essa: «vivi in grande» è l’invito che costantemente formula Carol alla figlia, come se quel suicidio che le accomuna potesse essere una delle modalità di realizzazione di questa stessa grandezza. Birch e lacasadargilla, con una misura e un rigore ammirevoli, disseminano l’opera di una sottile ironia, di un umorismo non lontano dal Witz ebraico, in grado di sorridere di fronte all’orrore e di cogliere l’allegria insita in qualsiasi naufragio. Ecco che John (Francesco Villano), nel rivelare la morte della madre ad Anna, afferma di non avere mai investito nessuno in un’intera vita trascorsa come macchinista sui treni, salvo poi, dopo pochi istanti di silenzio, correggersi – «non è vero, ho preso sotto quattro persone» – e diffondere attraverso la platea un’ilarità sorniona. Quanta vita, e quale vita sia possibile abitare e generare, Anatomia di un suicidio sembra suggerirlo, nuovamente, per antitesi: proprio quando Bonnie sceglie di sottoporsi a un percorso di sterilizzazione – e così facendo interrompere la catena del trauma e dei suicidi che ne ha contraddistinto la genealogia – rivela, a sé stessa e al mondo attorno a sé, di poter essere madre e genitrice di un tempo differente, di spazi inediti, di progetti, di incontri.
Un tale, millimetrico lavoro di contrappesi tematici, di ritmiche variazioni tra acuti esistenziali e precipitati emotivi, trova un esecutore perfetto e virtuosistico nell’ensemble guidato da Ferlazzo Natoli e Ferroni. Se Garribba, Valentini e Rosellini appaiono in stato di grazia, altrettanto accurate sono le interpretazioni che ruotano attorno ai loro gesti, alle loro parole che si fanno canto e litania: e come rare volte accade in teatro, alcune sequenze di questo lavoro sembrano imprimersi nella coscienza dello spettatore, e là poter restare a lungo. Ecco Garribba, allucinata e sommersa da troppo amore, ripetere come un mantra le parole «una bambina»; Valentini avvicinarsi alla culla che ospita la piccola Bonnie, senza riuscire a toccarla; l’eccezionale Camilla Semino Favro singhiozzare con un pesce in mano, e un superbo Francesco Villano continuare a lottare, nonostante tutto, e a danzare con la piccola Anita Leon Franceschi. Accanto a loro, esplodono l’ostinata, rabbiosa, arrogante e struggente forza di Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Alice Palazzi, le mediocrità e gli slanci di uomini e donne che cercano di afferrare Carol, Anna e Bonnie, di trattenerle in superficie, di ottenere conferme o promesse. Scrive Szymborską che «non c’erano lettere», nella stanza del suicida, che nulla renderà comprensibile, o accettabile, il suo gesto, eppure «noi, gli amici – tanti –, ci ha tutti contenuti / la busta vuota appoggiata a un bicchiere». Anche il teatro si è fatto busta vuota: tutti siamo stati contenuti, in Anatomia di un suicidio.
Alessandro Iachino
in copertina: foto di Masiar Pasquali
sound designer Pasquale Citera