Di e con Elena Bucci
visto al Teatro Elfo Puccini – 19 – 24 maggio 2015

In un bar immerso nell’oscurità della notte, fra un bancone e qualche tavolino, una donna (Elena Bucci) racconta sé stessa, anzi racconta qualcosa di ognuno di noi: ricordi d’infanzia, incontri fugaci, amori, parole non dette, nostalgia di qualcosa che avrebbe potuto essere e non è stato.
Elena Bucci immerge da subito lo spettatore in un’atmosfera sospesa, lo cattura con un’audace contaminazione di recitazione, danza, canto, scaturita da anni di laboratorio interdisciplinare sull’improvvisazione. Sul palco, oltre a lei, due presenze silenziose, perfettamente affiatate: Giovanni Macis, macchinista al colorato bancone del bar, e Dimitri Sillato al pianoforte, che alterna ritmi jazz a ballate popolari, capaci, in una manciata di note, di evocare un personaggio.
Barnum è il fluire inarrestabile della vita, “maledetta, che più la vuoi tenere e più ti sfugge” con le sue continue trasformazioni, è un polifonico circo dove i personaggi assumono una maschera che confonde e nasconde, dando l’illusione di proteggere dal dolore e dalla frustrazione.

L’accento romagnolo rende affabile – quasi familiare – la narrazione spezzata e impressionista di vicende qualunque, le “autobiografie di ignoti”, che si dipanano da un gesto, da un motivo appena accennato per poi scivolare con abilità da un personaggio all’altro, fra commozione e ironia. La casalinga depressa che scopre all’improvviso la passione per la poesia e viene presa per matta, l’oste di una trattoria romagnola refrattario alle mode, la ragazza innamorata del bagnino che la tradisce, i vecchi che giocano a biliardo, la donna sola che non ha altri interlocutori all’infuori della bottiglia, fino all’utopista che ristruttura un brutto cinema di periferia per farne un luogo di incontro e cultura: sono “naufraghi d’Occidente”, vittime della solitudine, della nostalgia, di cambiamenti troppo veloci che lasciano dietro di sé rapporti umani e riti sociali, come, appunto, quello del bar di provincia. Ma, al di là delle apparenze, non sono degli sconfitti, hanno sogni e progetti, non hanno paura dei sentimenti e attraverso la parola ritrovano sé stessi, almeno per quell’attimo magico che solo il teatro sa offrire.

In questo microcosmo del mondo di ieri in cui l’identità individuale si smarrisce, nume tutelare è Pessoa, che la Bucci evoca nel finale con pochi tocchi: un cappello, un cappotto lungo, il dialogo accennato con gli eteronimi, sfaccettature di uno stesso io che chiede voce. Un po’ Sei personaggi in cerca d’autore, un po’ autobiografia immaginaria, lo spettacolo accosta parlato quotidiano e citazioni da Virginia Woolf e Allen Ginsberg, Colazione da Tiffany e Romagna mia: è il medesimo struggimento, la stessa improvvisa felicità senza motivo, che si insinua sottopelle e ti accompagna anche fuori dal teatro.

Simona Lomolino