Di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
Visto al Pim Off_16-18 novembre 2013
Puntini di sospensione.
Complicità, reticenza, allusione.
In altre parole: lavori in corso.
Come a dire che, se il discorso si blocca, non si tratta di sincope argomentativa, ma, al contrario, è l’indizio che gli ingranaggi del pensare si muovono, pompano, sbuffano, stanno elaborando insomma, perché, prima di formulare alcunché, tentano di trovare l’espressione giusta, la via migliore per farsi capire.
Del resto, se una frase resta inconclusa sarà l’altro, l’interlocutore, a fornire la propria interpretazione e a chiudere il cerchio.
Il modus dicendi di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini è proprio questo: lo si era notato l’anno scorso, sempre al Pim Off con Reality, se ne ha la conferma ora con Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, il loro ultimo lavoro ispirato al libro di Petros Markaris, L’esattore.
Diciamolo subito: può non piacere. Anzi, di più: può indisporre. Il pericolo di apparire costruiti, o peggio, affettati, esiste concretamente e rischia di conferire all’intera operazione un’atmosfera salottiera, manierista e un po’imbrogliona.
Eppure, una volta stabilito che si tratta di artificio, si può andare innanzi e chiedersi se questo particolare atteggiamento riesca ad assumere i connotati del mezzo espressivo al pari del tono elencale dei Babilonia Teatri o della più celebre cadenza ronconiana.
Deflorian/Tagliarini, che qui si accompagnano con Monica Piseddu e Valentino Villa, sono infatti consapevoli della propria tecnica e, se da una parte dichiarano che il livellamento espressivo del gruppo non è imputabile a un diktat registico ma a un ascolto reciproco, dall’altra scherzano con autoironia sul procedimento, esibendone al pubblico l’impalcatura.
Meta-teatro sfrontato e ammiccante, non ci sono dubbi.
Tuttavia questa inclinazione – studiatamente nevrotica quanto quella di Diane Keaton in un film di Woody Allen – anima una forma teatrale ben costruita e ben recitata, attuale e coinvolgente nel suo raccontare di persone (attori) comuni travolti, nella loro già precaria esistenza, dalla crisi economica. L’immagine delle quattro vecchie che decidono di suicidarsi per evitare di essere un ulteriore peso ad un paese già in crisi, non è solo il pretesto per bilanci privati, autoreferenziali, ma diventa manifesto polemico di chi rifiuta una condizione degradante e vergognosa.
Come insetto imbrigliato in una ragnatela, lo spettacolo si dibatte tra due alternative, entrambe scoraggianti: o l’ossessivo arrovellamento che porta alla nevrosi, o il gesto estremo che preserva la dignità dell’individuo con pragmatismo tragico (mors mea, vita tua), a cui corrispondono, sul piano strutturale, lo stimolo costante alla riflessione e l’impossibilità della rappresentazione narrativa. È proprio questa coerenza, questa stretta adesione tra forma e contenuto che colma Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni di senso compiuto, rendendolo un lavoro più che apprezzabile e confermando l’abilità dei due autori nello scegliere argomenti e nel produrre testi ben calibrati alla propria cifra stilistica.
Se, nell’immediato, il rischio di una coazione a ripetere è scongiurato dall’intelligenza della trattazione, per il futuro l’eventualità rimane: non resta che aspettare fiduciosi (nonostante la crisi), applicare i puntini di sospensione e stare a vedere come risponderà il duo.
Corrado Rovida