È un’immagine con il profilo delle Alpi, con segnate le vette e il ghiacciaio Mer de Glace, a calare tra il pubblico e la scena e marcare, come una ricorrenza, il ritmo di Frankenstein, il nuovo spettacolo di OHT. E proprio questa immagine sembra segnare la continuità – tematica e visiva – con alcuni dei precedenti lavori della compagnia: non solo per il richiamo al tema del paesaggio – e in particolare a quello alpino – ma anche perché, proprio come avveniva in Curon/Graun prima e in 19 luglio 1985 poi, la narrazione, attraverso parole proiettate, si riferisce a un disastro ambientale limitandosi a esporre dati e fatti, con un testo sintetico e puntuale. Così OHT ricostruiva infatti (nel 2018) la catastrofe di Curon, il paese della Val Venosta evacuato, distrutto e sommerso nel 1950 per lasciare il posto a un bacino artificiale destinato alla produzione di energia idroelettrica, e in modo analogo veniva narrata (nel 2019) la strage della Val di Stava del 19 luglio 1985, quando i due grossi bacini realizzati per la decantazione dei materiali della miniera del monte Prestavel crollarono, provocando un’onda di fango che cancellò in pochi secondi il paese di Stava.
Il disastro a cui fa riferimento questa volta il regista Filippo Andreatta è quello provocato nel 1815 dalla eruzione del vulcano Tambora in Indonesia, le cui conseguenze climatiche si fecero sentire fino in Europa e in tutto il mondo: i modelli meteorologici andarono in crisi e provocarono calamità a catena, epidemie e carestie, portando a quello che fu definito “anno senza estate”. Dietro a questo livello narrativo – collocato anche fisicamente sul fondale che cala a intermittenza tra il pubblico e lo spazio performativo – si nasconde quello della scena retrostante: un laboratorio, un magma di creazioni scientifiche e di sentimenti, dove acqua, fuoco, legna, tubi e superfici traslucide segnano lo spazio e lo animano, fin dall’ingresso del pubblico in sala.
Cosa c’entra, allora, il vulcano con Frankenstein? Non è un caso che il primo romanzo gotico di fantascienza sia stato scritto dopo quell’evento, da una diciottenne chiusa in una casa sulle Alpi svizzere mentre le nebbie e le polveri invadevano il mondo. Se i gas e le particelle emessi dall’eruzione nell’atmosfera mutarono i colori dei cieli, influenzando le rappresentazioni di artisti romantici come Caspar David Friedrich e William Turner, anche l’immaginario di Shelley non ne rimase indifferente.
Questa sensibilità al tema ambientale è il filtro con cui guardare, per Andreatta, l’opera di Mary Shelley, a partire anche dall’interpretazione della filosofa Dehlia Hannah, autrice del libro A Year Without a Winter.
In scena due performer, Silvia Costa e Stina Fors, esprimono, nell’ambiguità dei ruoli, una ricorrente dimensione di duplicità, espressa anche a livello linguistico dalla compresenza di italiano e inglese (tanto nel parlato quanto nei sovratitoli). Lo scienziato e la sua creazione, la repulsione e il fascino, ma anche la violenza e la fragilità del mostro sono così elementi sempre presenti. Come di consueto nei lavori di Andreatta, grande attenzione è data all’apparato visivo e all’architettura della scena, che si fa drammaturgia. Le luci di Andrea Sansone, le sculture di scena e le automazioni di Plastikart, il busto di cera e le maschere di Nadia Simeonkova, il fondale dipinto di Paolino Libralato sono le componenti di un allestimento scenico stratificato quanto il testo, che prende vita e si anima in modo imprevedibile e apparentemente incontrollabile, come un paesaggio gotico (del tutto artificiale) dalle tinte più cupe. Nel fumo denso che riempie la scena, il profilo di una performer nel pieno della luce sembra emettere sonorità che prendono una consistenza fisica, così come consistenza fisica sembra avere il tappeto sonoro di Davide Tomat. La grazia dei movimenti di Costa e Fors, perfettamente controllati, si contrappone a una deformità del suono e del linguaggio. Se le sfaccettature di questo impianto sono talvolta criptiche, il mistero sembra essere strutturale alla configurazione del lavoro, che contempla infatti, oltre allo spettacolo, altri esiti e che si lascia leggere come opera aperta a diverse interpretazioni.
Portandoci indietro nel tempo, nel disorientamento di un’umanità posta davanti a fenomeni che sfuggono alla ragione, a una natura tormentata da manifestazioni atmosferiche estreme, il Frankenstein di OHT diviene un’espressione fantastica che si può permettere di rappresentare l’incomprensibile: l’aspirazione dell’uomo a poter fare qualsiasi cosa, a controllare il clima e la natura, fino a perderne il controllo. Un disorientamento che non sembra essere così lontano da quello di oggi, di questi tempi pandemici e di crisi ambientale; non a caso “l’alterità”, il “mostruoso”, il “cyborg” tornano come temi centrali di tante esplorazioni teoriche e artistiche, nonché di messinscene teatrali. Si pensi al Carbonio di Pier Lorenzo Pisano o all’Earthbound di Marta Cuscunà, per fare due esempi anagraficamente e geograficamente prossimi ad Andreatta, per quanto linguisticamente lontani.
Al filone che apre finestre sui rispecchiamenti con l’emergenza climatica di oggi – un mostro creato dall’uomo e che gli sfugge di mano – c’è, in questa manifestazione dell’alterità e in particolare in questo Frankenstein, l’esplorazione di una dimensione introspettiva: la fragilità di un essere che nasce (o si trova) in un mondo creato da altri e a cui deve adeguarsi, nella scoperta, anche dolorosa, dell’altro da sé e, di conseguenza, della propria diversità. È, di fatto, un’espressione dell’addomesticamento: la scoperta che ognuno fa del proprio intorno e della propria limitatezza, nel confronto con un’incommensurabile vastità, dal momento stesso in cui viene al mondo.
Francesca Serrazanetti
in copertina: immagine del fondale dipinto da Paolino Libralato
FRANKENSTEIN
performance di OHT – Office for a Human Theatre
scrittura di Filippo Andreatta
da Mary Shelley, Clarice Lispector
regia e scena Filippo Andreatta
con Silvia Costa, Stina Fors
suono e musica Davide Tomat
luci Andrea Sanson
costumi Lucia Gallone
responsabile allestimento Cosimo Ferrigolo
assistente regia Veronica Franchi
sculture di scena e automazioni Plastikart Studio
busto di cera e maschere Nadia Simeonkova
fondale dipinto Paolino Libralato
tecnici Orlando Cainelli, Rebecca Quintavalle
amministrazione Lucrezia Stenico
sviluppo Anna Benazzoli
fotografie Giacomo Bianco
video Anouk Chambaz
produzione OHT, TPE – Teatro Piemonte Europa, Snaporazverein (CH), Opera Estate Bassano del Grappa
residenza artistica Centrale Fies
con il contributo di Provincia Autonoma di Trento, Fondazione Caritro di Trento e Rovereto