di George Tabori
regia di Luca Micheletti
dal 3 al 13 novembre_Teatro Franco Parenti

A Luca Micheletti si deve riconoscere il grande coraggio di aver voluto misurarsi, nella doppia veste di regista e attore, con una pièce, Le Variazioni Goldberg di George Tabori, complessa, ambiziosa, difficile, in cui comico e tragico si legano tra loro in un tessuto fittissimo di allusioni letterarie, filosofiche, storiche. Il testo costituisce una sfida per il regista e gli attori, ma nondimeno per il pubblico: il cui orizzonte di attesa, nell’Italia di oggi, è naturalmente diversissimo rispetto al pubblico di lingua tedesca per cui andò in scena la prima volta nel 1991. Un testo il cui nocciolo, come in tutta la produzione di Tabori, sta nella domanda, posta da un ebreo:  “dov’era dio quando si compiva l’orrore della shoah?”. Una domanda che dal pubblico odierno esige un esercizio di memoria e uno sforzo analogico con situazioni tragiche del presente, dal sostrato religioso antitetico a quello della tradizione ebraica.

L’ambientazione delle Variazioni Goldberg è a Gerusalemme, in un teatro ebraico dove lavora il vecchio Goldberg, assistente di un regista chiamato Jay, cioè “Dio” (Jahvé). Il progetto teatrale di Jay si basa sul vecchio e sul nuovo testamento: deve cominciare come una commedia con la Genesi e la cacciata dal paradiso e finire tragicamente con la crocifissione (figurazione, tra l’altro, della Shoah).  La pièce mette in scena le prove dei singoli quadri drammatici, Caino, il vitello d’oro, Giona nella balena e così via: si tratta dunque di un dramma meta-teatrale, in cui tutto ciò che accade durante le prove, i rapporti tra gli attori, le loro ritrosie e incapacità, le discussioni sul senso delle scene, l’esplosione delle emozioni, diventa teatro. Si tratta quindi di rappresentare il teatro nel suo farsi, nel suo mettersi perennemente in discussione, nel suo beckettiano “fallire”. Ma non solo: Jay, nel suo atteggiamento segnato dall’odio e dall’amore, nella tirannia con cui tratta il suo assistente Goldberg, rappresenta Dio rispetto al popolo da lui eletto: quindi il teatro diventa una metafora del mondo e della storia. Tutto ciò è tenuto insieme dal Witz di tradizione ebraica, dall’ironia vigile, dai molteplici rinvii scritturali e culturali, chiamati a mostrare come il teatro sappia davvero contenere il mondo, rappresentandolo. Un’idea che concilia le origini rituali della tragedia greca con le rappresentazioni sacre medievali, spandendo su ogni cosa l’umorismo ebraico ma anche il sale scettico di tradizione cinica e lo spoudogeloion delle più brillanti menti satiriche antiche, da Aristofane a Luciano di Samosata.

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Le Variazioni Goldberg sintetizzano tutto ciò (ed altro) nello spazio e nel tempo di una messa in scena. Ed è un miracolo artistico e letterario, a cui tutta la compagnia – a cominciare dallo stesso Micheletti (Mr. Jay) e Marcella Romei (Goldberg) – tiene splendidamente testa. Micheletti, con lo scenografo Csaba Antal, sceglie di ambientare lo spettacolo in una camera anecoica, “lo spazio del silenzio assoluto in terra”, si legge nelle dettagliate Note di regia e se il risultato scenico è efficace, quest’ambientazione influenza l’interpretazione complessiva del dramma. Il testo infatti non intende chiudere il mondo fuori, ma farlo irrompere in teatro: la sua celebrazione dell’atto teatrale e della rivisitazione biblica sembra sconvolta e scompaginata dal caos della realtà, non protetta da esso.

Goldberg scrisse la pièce quando aveva 77 anni, ne curò la regia a Vienna per una messa in scena divenuta leggendaria: lì Jay, impersonato da Gert Voss, vestiva di bianco, un vanitoso divo dell’avanspettacolo, innamorato di se stesso e d’altro canto dipendente dall’amore della sua creatura, Goldberg (Ignaz Kirchner), che mostrava fisicamente i segni del dolore che gli era stato imposto. Nel 2008 il regista Thomas Langhoff, all’indomani della morte di Tabori, nella messa in scena al Berliner Ensemble, accentuò invece nella pièce il significato teatrale e tutto secolare: i due protagonisti erano professionisti del teatro che pragmaticamente discutevano e si scontravano sulle modalità della messa in scena, attutendone le questioni religiose ma anche l’ironia laica e spietata di Tabori su di esse. L’edizione italiana odierna, la prima in assoluto, cerca di conciliare i due termini, forse prendendo troppo sul serio sia l’aspetto religioso che quello meta-teatrale, dando cioè la prevalenza al tragico sul comico, anche se quest’ultimo sembra suggellare la messa in scena con uno scambio finale (che in Tabori non c’è) tra “dio” e il suo “eletto”. Il risultato della pièce consiste innanzitutto nello straniamento del pubblico, che non sa sempre bene a cosa sia assistendo. Da qui la necessità di accompagnare la visione dello spettacolo con la documentazione e lo studio del testo e dell’attività geniale di Tabori, a cui contribuiscono gli importanti incontri Sulle tracce di george Tabori che accompagnano l’occasione, curati da un vero esperto come Marco Castellari e Irene La Scala. Ma se non può prendere parte a questi, lo spettatore sentirà almeno la necessità di rileggere il testo (edito da Editoria e spettacolo, 2014, nella perfetta traduzione di Marco Castellari e Laura Forti) e studiarlo. Perché è cosa buona e giusta.

Sotera Fornaro