Nella sua giornata conclusiva, il Festival del Silenzio ha ospitato diverse sessioni della performance corale MIM di Jacque-André Dupont, artista franco-colombiano di base a Bologna.

Lo spettacolo richiama nel titolo l’espressione del sociologo canadese Herbert Marshall McLuhan, “medium is the message”. Si parte dunque dalla consapevolezza che i media non siano mai neutrali ma che, anzi, siano i loro criteri strutturali a determinare la comunicazione, influenzando i comportamenti degli utenti/spettatori. La televisione, ad esempio, con la sua funzione rassicurante e ripetitiva, non destabilizza lo spettatore, il quale, anzi, trovando conferma di sé, non è portato a generare nuovi comportamenti ma continua a replicare all’infinito ciò che già conosce. Così ogni medium ha un modo specifico di stimolare i nostri sensi e questo ha un impatto determinante sulla nostra costruzione della realtà. Come scrive Jacque-André Dupont, “oggi, nell’epoca dello schermo, molti individui soffrono di ipertrofia visiva e di contro hanno un deficit tattile”.

Da questo presupposto è nata la touch choreography MIM, che si propone quindi come un’occasione per bilanciare l’individuale percezione della realtà con la pratica tattile, spingendo lo spettatore al di là dei propri rassicuranti confini. Un effetto di straniamento evidente fin da subito. Nonostante infatti agli spettatori fosse stato chiesto già in fase di prenotazione se volessero solo assistere o prendere parte alla performance, il disagio iniziale tra il pubblico è palpabile. Nemmeno la rassicurazione sul fatto che ‘ricevente’ possa chiedere in qualunque momento di interrompere la touch choreography, sembra tranquillizzare del tutto gli spettatori.

Le cinque persone che si sono candidate come ‘riceventi’, vengono invitate ad accomodarsi su alcune sedie da massaggio disposte a semicerchio. Le teste convergono in un unico punto centrale della scena e la posizione semi-supina impedisce loro la visione di tutto ciò che è circostante. Accompagnati dal programma musicale di Clément Destephen e dalla scenografia video di Anthony Oilhack e Jaques-André Dupont, realizzata dal vivo con un gioco fluido di colori acrilici proiettati sullo schermo di fondo, ognuno dei cinque performer di Fattoria Vittadini si avvicina a uno degli ‘spettatori-riceventi’. Inizia così una mappatura somatica che alterna tocchi leggeri, pressioni profonde, ridefinizioni dei contorni della sagoma e poetiche scoperte dei corpi nella loro interezza. Dopo venti minuti ciascun ‘spettatore-ricevente’ viene riportato alla realtà con un triplice tocco sul braccio precedentemente concordato.

Chi ha ricevuto viene poi invitato ad assistere alla seconda sessione della performance o ad abbandonare la sala. Tra il pubblico è difficile trovare altri cinque volontari pronti a passare dal ruolo comodo di semplice spettatore a quello di ricevente. Dopo un po’ di naturale titubanza, si fanno avanti alcuni volontari e viene così ripetuta la performance. Gli spettatori esterni sono invitati a muoversi per la scena e osservare la coreografia da diversi punti di vista, ma nessuno sfrutta questa possibilità. Accompagnati dal magma di colore sullo sfondo e dalla musica ipnotizzante, l’impressione è che tutti si ritrovino avvolti in un’amniotica dimensione di estasi. Al termine una spettatrice-ricevente si abbandona a un pianto che viene accolto come la naturale conseguenza di un intimo superamento dei propri confini. E anche le barriere del palco e la gerarchia dei ruoli sono abbattute: gli spettatori finalmente si alzano, si muovono nello spazio, parlano con i performer o tra di loro. La soglia di inibizione è scesa, la conoscenza tattile sembra aver aperto nuovi canali comunicativi. Superati definitivamente i confini tra astanti e riceventi, tra performer e spettatori, sembra compiuto il proposito di Dupont: “the public’s bodies turns into a stage where they become the audience of their own sensations”.

P.S. Si racconta che nel 1967, uscì una partita di volumi con un vistoso errore tipografico che storpiava il titolo originale in “Il medium è il massaggio”. Sembra però che quando McLuhan si accorse del refuso, trovò geniale l’involontario gioco di parole. Oltre allo scambio tra “massaggio” e “messaggio”, la parola finale del titolo si prestava infatti ad un’ulteriore scomposizione: Mass-Age (l’era delle masse) e Mess-Age (l’era del caos). Forse la riflessione di Dupont trae spunto proprio da questo errore grafico?

Michaela Molinari