Tra le linee di continuità della direzione artistica santarcangiolese di Silvia Bottiroli, va senz’altro annoverata l’attenzione per la ricerca coreografica. Negli scorsi anni (a volte anche accanto a forme teatrali frammentarie, non definitive) il cartellone del Festival ha sempre riservato uno spazio speciale alla danza italiana, individuando alcuni artisti di riferimento e avviando con loro un’interlocuzione costante.
Michele Di Stefano, Fabrizio Favale, Cristina Kristal Rizzo non sono stati solo chiamati a portare i loro spettacoli, ma anche a pensare il festival come un luogo per sinergie e collaborazioni. È nata con questo spirito la Piattaforma della Danza Balinese, creata nel 2014 e replicata nel 2015: una sorta di ‘isola’ di sperimentazione coreografica, che si apriva ogni giorno al pubblico con incontri, performance e improvvisazioni. Cosa accomuna i tre artisti scelti da Santarcangelo, così diversi per stili e poetiche? In primis, un percorso da danzatori confluito naturalmente in una vocazione autoriale, importanti riconoscimenti ottenuti all’estero, e una presenza intermittente nelle programmazioni italiane. Ma non solo: sono ricerche che si tengono lontane dalla mera esibizione di talento, e che guardano alla tecnica coreutica come a uno strumento per la produrre senso, mai come a un fine. La collaborazione con Santarcangelo è diventata dunque un luogo di confronto tra percorsi diversi ma paralleli, un habitat comune nel quale mantenere la propria bio-diversità.
Per questa quarantaseiesima edizione, in rappresentanza dei ‘balinesi’ è stata (ri)chiamata Cristina Kristal Rizzo (qui un’intervista rilasciata un anno fa a Stratagemmi). In cartellone, l’anteprima di un nuovo lavoro, Prelude, e un atteso ritorno, BoleroEffect. Il più recente – un flusso di movimento per sette danzatori – è stato presentato al Lavatoio nel primo fine settimana del festival, a porte aperte, in uno scambio di rumori e atmosfere tra la strada e la platea. BoleroEffect torna invece a Santarcangelo per la seconda volta, dopo aver già raccolto plausi ed entusiasmo nell’edizione 2014, e con all’attivo alcune altre tappe importanti (Biennale di Venezia, Festival Uovo). A legare i due lavori c’è il contributo di Palm Wine, che costruisce ambienti sonori pensati ad hoc, ma anche lo sviluppo di una stessa ricerca: Prelude indaga l’idea di ensemble, proprio come BoleroEffect sperimentava le infinite possibilità di ‘connessione’ di un duo (in entrambi, in scena c’è la straordinaria Annamaria Ajmone). Al centro dei due lavori, si può rintracciare una riflessione profonda sull’idea di sincronia, che parte da uno dei concetti-chiave della coreutica occidentale per arrivare a un completo ribaltamento di prospettiva. Sincronia, sul palco della Rizzo, non è mera capacità di eseguire gli stessi movimenti nello stesso momento secondo un ritmo precedentemente concordato (proprio come avviene nel balletto), ma capacità di respirare insieme, di diventare un unico organismo, di sentire l’altro. Essere insieme nello stesso tempo – così come suggerisce l’etimologia – può significare percorrere profonde sfasature di gesto, accettare l’impossibilità di aderire al corpo dell’altro, accogliere la propria specificità. Quella tensione verso un obiettivo formale prestabilito che si percepisce su molti palchi di danza (e che conduce necessariamente all’errore o all’imperfezione), è del tutto assente dalla coreografia della Rizzo: i danzatori non devono dimostrare, riuscire, arrivare. A osservarli, si direbbe che semplicemente sono, qui e ora. Soprattutto in BoleroEffect al pubblico viene trasmessa una travolgente e contagiosa piacevolezza del danzare, che è anche – a ben guardare – una profonda consapevolezza dello stare.
Proprio questo elemento collega le performance della Rizzo al lavoro dell’altro coreografo presente al Festival, Martin Spangberg. Dopo aver incantato Santarcangelo con il suo Nature nel 2014 – nel quale per oltre due ore e mezza un gruppo di danzatori contribuiva a creare un piacevole e rilassato ecosistema danzante – l’autore svedese rilancia: con Natten, lo spettatore è chiamato a condividere un’intera notte con i performer e a entrare con loro in una nuova e diversa condivisione del tempo. Accomodato su pesanti coperte, in penombra, il pubblico può dormire oppure sbirciare i danzatori passare dalla quiete al movimento, e osservare come in un sogno i movimenti rilassati e rarefatti di quelle che sembrano languide “coreografie in pigiama”. L’obiettivo, per Spangberg, è da un lato spegnere ogni fuorviante aspettativa e ogni tensione voyeristica in platea, dall’altro annullare nei danzatori ogni tensione all’esibizione. Solo allora, al termine di un duplice percorso di sottrazione, c’è spazio per un reale contatto tra spettatore e performer. Pur nell’evidente diversità, l’immediatezza comunicativa (esito di lunghissima ricerca teorica) caratterizza dunque entrambi i progetti coreografici presentati in questa edizione di Santarcangelo. Un’indagine che pare particolarmente preziosa in un ambito, come quello della danza, troppo spesso percepito come poco fruibile e autoreferenziale: c’è da augurarsi che Santarcangelo resti un laboratorio attivo in tal senso anche con la prossima direzione.
Maddalena Giovannelli