“Things do not happen, things are made to happen”. La forza dell’accadere, non solo come principio soggetto alla casualità, ma come elemento dotato di una profonda potenzialità, è il punto zero da cui trae spunto Motherlode, la 35° edizione del festival Drodesera, che si è svolto dal 26 luglio al 2 agosto a Dro. Lo slogan è ripreso da una celebre frase di John Fitzgerald Kennedy e deve aiutare a riflettere sul significato dell’accadere scenico. Quest’anno Centrale Fies, costeggiata dal fiume Sarca e circondata dalla frana rocciosa delle Marlocche, ha voluto assumere simbolicamente la funzione di vena madre che, discostandosi dalla tradizionale estrazione dell’oro, è divenuta fucina performativa per aprirsi alle molteplici forme della rappresentazione scenica: dalla storia, alla politica, alla filosofia. La procedura di reenactment, altro nucleo tematico del festival, si è trasformata in detonatore di parole e di immagini capaci di non esaurirsi negli istanti scenici, ma di ricreare realtà provenienti dal passato o di delineare un ipotetico futuro: in una parola, la ri-creazione ha tracciato le vie dell’oltre, dell’intervallo, del frammento.

Con la mostra inaugurale The abandoned mines del 26 luglio scorso, la miniera abbandonata è divenuta il simbolo per catturare forme temporanee di realtà e per ricercare la natura performativa degli oggetti al di là del tempo della loro produzione scenica. E se catturare istanti del performativo, per sua natura essere mutevole, liquido, quasi in costante assenza, può sembrare paradossale, il festival Drodesera ha deciso di farsi carico di una sfida non facile. È davvero possibile che la natura performativa di un oggetto persista anche al di là del momento spettacolare? E se ciò accade in che maniera può rendersi visibile, non smettendo di svelare la sua natura transitoria ed effimera?

Un interrogativo che si è trasformato in linea dominante del festival, restando domanda aperta in tutti i lavori in programmazione: dagli spettacoli presentati dagli artisti di Liveworks, un contest che, dopo un periodo di residenza artistica di dieci giorni a luglio presso Centrale Fies, ha visto in concorso, durante le prime tre giornate di festival, performer provenienti da tutta Europa con proposte artistiche differenti; ai lavori di artisti già affermati tra cui Jérôme Bel, Philippe Quesne, Alessandro Sciarroni, Santiago Sierra, Motus, Fanny e Alexander, Navaridas & Deutinger, Roger Bernat, Compagnia Abbondanza e Bertoni, Teatro Sotterraneo, Marta Cuscunà. Proposte sceniche differenti ed eterogenee: dalla ricerca sul senso della singolarità dell’individuo con 1000 e Compagnia Compagnia di Jérôme Bel, al racconto intimo di Silvia Calderoni nella difficoltà di definirsi come individuo aderente ad un genere con MDLSX, all’ironico e tagliente sguardo di Navaridas e Deutinger nei confronti di Barack Obama e ai paradossi della sua politica con il lavoro Your majesties.

Tra tutti i lavori proposti all’interno della programmazione del festival colpisce, non solo per modalità sceniche, ma anche per una cristallina rispondenza ai meccanismi e ai principi di reenactment, lo spettacolo Numax-Fagor-Plus della compagnia FFF (The Friendly Face of Fascism), guidata dal regista catalano Roger Bernat. La compagnia si configura di fatto, nella scena contemporanea europea, come l’emblema di una particolare tipologia di teatro partecipativo che affida al pubblico il ruolo di spett-attore: spettatore e creatore dello spettacolo, con la scomparsa dalla scena di attori professionisti.

La dinamica scenica principale di Numax-Fagor-Plus consiste nel creare una situazione assembleare, durante la quale i partecipanti sono chiamati a interpretare i dialoghi reali dei lavoratori di due fabbriche distinte: dapprima quelli dei lavoratori di Numax, una fabbrica catalana che chiuse i battenti nel 1979, dopo due anni di autogestione da parte degli operai stessi; secondariamente quelli di Fagor, un’azienda basca che chiuse nel 2013 scorso. Plus invece, terza ed ultima parte dello spettacolo, rappresenta un confronto tra le due epoche, mettendo in evidenza come non possano comunicare tra loro. Ai dialoghi, componenti principali dello spettacolo, si affiancano le immagini delle registrazioni video realizzate durante le due assemblee.

L‘elemento principale di connessione tra le differenti componenti dello spettacolo è proprio il reenactment: una procedura che permette di passare da una vicenda all’altra tramite la pratica della ricostruzione, abbracciando prima le vicende di Numax, per poi ricollegarsi a quelle di Fagor ed arrivare così a Plus, sovrapposizione e mescolamento di immagini e interpretazioni.

Lo spettacolo si svolge in una sala destinata ad accogliere un’assemblea: due file di sedie poste ai due lati del perimetro scenico delimitano la tipica disposizione della sala riunione.

Uno sgabello è collocato a un lato della sala, all’interno del semicerchio: il posto riservato a una performer, che ha il compito di guidare la prima parte della ricostruzione assembleare. Alle due estremità della sala, invece, sono situati due schermi giganti, uno a destra e uno a sinistra.

Il pubblico viene chiamato a rivivere dapprima l’assemblea operaia di Numax, guidata da Mercé, secondariamente quella di Fagor, guidata da Ioia. La parola, di volta in volta proiettata sui monitor, diventa lo strumento tramite il quale far rivivere i momenti assembleari: si legge il nome di una persona e a fianco il suo intervento. Ogni personaggio nella prima parte dello spettacolo corrisponde a un ex-lavoratore della fabbrica di Numax; nella seconda parte, invece, i dialoghi proiettati sugli schermi appartengono agli ex-lavoratori di Fagor. Ogni spettatore deve scegliere se partecipare attivamente all’assemblea oppure se limitarsi ad osservare quanto accade intorno a lui.

Dalle immagini nasce la moltiplicazione dei piani di narrazione: appaiono dapprima le immagini del documentario Numax presenta… realizzato dal cineasta catalano Joaquim Jordà, per narrare l’esperienza di autogestione dei lavoratori di Numax (in realtà si tratta di un documentario realizzato a posteriori: i lavoratori, alla fine delle loro azioni rivendicative, decisero di destinare il fondo della cassa comune alla realizzazione di un documentario che narrasse la loro storia); seguono le immagini dell’assemblea svoltasi a Mondragón nel novembre del 2013, organizzata dal regista Bernat per incontrare i lavoratori della fabbrica e per mostrare loro il documentario Numax presenta…; infine, si osservano le immagini degli ex-lavoratori di Numax convocati dal regista Bernat nel febbraio del 2014 per rivedere l’assemblea svoltasi a Mondragón nella fabbrica di Fagor qualche mese prima e per vedere nuovamente, a distanza di molti anni, il documentario realizzato da Joaquim Jordà e per creare un dibattito su quanto visto. I piani tra la riproduzione dei dialoghi e delle immagini spesso si sovrappongono, in particolar modo nella parte conclusiva dello spettacolo, Plus: Mercè e Ioia si confrontano nell’impossibilità di dialogo tra epoche distinte. La storia, in questo caso, non si ripete, suggerisce il regista, inserito come personaggio all’interno della dinamica scenica, e il teatro pare essere il luogo migliore in cui rendere visibile questo fallimento. Lo spettacolo si conclude con l’interruzione della narrazione da parte dei monitor: mentre cala il buio, Ioia e Mercè danzano, nell’epilogo di un sogno ormai giunto alla sua conclusione e di cui essi non sono che anime quasi spettrali.

Colpisce, all’interno della dinamica spettacolare, il ruolo giocato dal pubblico: i tempi della parola e i tempi di silenzio dipendono esclusivamente dagli spettatori. Se nessuno decide di intervenire, si generano lunghe pause, in cui tutti indugiano, si osservano, si guardano attorno, aspettando che qualcuno decida di entrare nel cerchio assembleare. È il teatro stesso ad essere messo in pausa, ad essere posto nell’intervallo della non-parola, del silenzio, del tendere alla ricerca di un senso. Lo svolgimento spettacolare conduce a una riflessione sull’automaticità dei meccanismi scenici: il pubblico tenta di capire e di inserirsi all’interno degli stessi. Quando il partecipante capisce di non essere partecipe di una storia fittizia, ma di aver interpretato le vesti di persone reali che poco dopo appaiono nei video, inizia a comprendere la complessità del particolare gioco di reenactment cui sta prendendo parte. Gli spettatori si sorprendono, ridono nelle pause decisamente troppo lunghe; sorridono quando qualcuno decide di intervenire e di interrompere momenti di silenzio desueti per la scena teatrale.

L’azione della presa di parola costituisce una delle chiavi essenziali ai fini del procedimento scenico e a quello drammaturgico, resa possibile attraverso l’utilizzo di un dispositivo tecnologico che guida, di volta in volta, la concatenazione delle azioni degli individui. D’altro canto il processo di reenactment rende evidente un procedimento liturgico-drammaturgico che assembla, smonta e riassembla temporalità distinte. Si genera, tra le varie concatenazioni narrative, una drammaturgia della parola, dotata di una propria dimensione temporale, che rimanda ad un procedimento curiosamente liturgico oltre che di reenactment.

Numax-Fagor-Plus gioca con il tempo e con la storia, e gioca con gli spettatori: l’occhio vigile di Bernat, posto all’interno del cerchio assembleare, mira a osservare le reazioni del pubblico per capire in che modo e in quale direzione possa tendere lo spettacolo, differente per ogni sua rappresentazione. Tenta di carpire, in altre parole, le possibilità del divenire scenico, ricreandolo, secondo una traccia comune che conduce però a forme e declinazioni differenti.

Non stupisce che alcuni spettatori, durante lo svolgimento dello spettacolo, decidano di alzarsi e di andarsene. C‘è chi non capisce lo svolgimento dello spettacolo; c’è chi decide di restare in silenzio e osservare; come invece c’è chi decide di partecipare attivamente alle dinamiche sceniche e alla fine del momento performativo si confronta con il regista per farsi svelare qualche dettaglio spettacolare. “Numax-Fagor-Plus cambia per ogni sua rappresentazione – confida Roger Bernat a spettacolo concluso – Qui a Dro si è generata una dinamica curiosa perché i momenti di attesa e di silenzio erano decisamente più lunghi di altre rappresentazioni. Ma questa è una variabile insita nello spettacolo ed è curioso osservare le diverse declinazioni che si originano in luoghi, pubblici e contesti differenti”. Si tratta, di fatto, di un lavoro che divide: così come separa i partecipanti dagli osservatori, così divide chi non riconosce e non riesce a seguire le dinamiche sceniche da chi non vuole, a priori, prenderne parte. In ogni caso, il partecipante deve assumere una posizione. È questo, in definitiva, il senso del reenactment e forse di tutta la ricerca scenica di Bernat.

Ci si chiede allora quale sarà l’elemento del lavoro del regista catalano che verrà conservato all’interno della Performance Art Collection di Centrale Fies: forse una parola? O forse il frammento di un’immagine? Viste le inquietudini, le curiosità e i dubbi suscitati nel pubblico per un lavoro complesso e ricco di rimandi politici, storici e sociali, Numax-Fagor-Plus lascia al festival Drodesera le tracce di una necessaria mutevolezza dell’essere performativo e l’indispensabilità di restituirne dinamicità attraverso interrogativi che nascono senza la pretesa di risposte definitive e definitorie. Made to happen.

Carmen Pedullà
[Foto: @Blenda]