Si sarebbe potuta riconoscere Maria Paola Zedda durante Coefore Rock&Roll di Enzo Cosimi, presentato negli spazi del PAC Padiglione d’Arte Contemporanea a Milano, durante l’ultima edizione di MilanOltre festival. Non era in scena, ma il suo sguardo era diverso da quello di una spettatrice comune. Aveva un’attenzione differente verso la performance, il luogo e il pubblico: quella di una dramaturg. E continua a sentirsi tale.

Nel tuo saggio Enzo Cosimi. Una conversazione quasi angelica (2019) accenni all’inizio della relazione professionale con il coreografo romano, circa vent’anni fa, nei termini di una collaborazione organizzativa sulle attività dello spazio Lab:oratory engines. E poi prosegui: «in quegli anni di conoscenza e collaborazione si consolidò un’esperienza umana, leale, intensa, vivace, un’amicizia complice, un confronto artistico che poi negli anni divenne sempre più sostanziale e per me formativo, che mi vide coinvolta in vesti molteplici di organizzatrice, performer, assistente, chitarrista, curatrice e amica». Quali di queste parole sopravvivono nel tuo rapporto con Cosimi? Quanto si sono intrecciati questi fili nel tempo e quali hanno nutrito la dimensione intellettuale e artistica?

Tra queste, la parola che forse mi lega di più a Enzo oggi è quella dell’amicizia. Un’amicizia che si consolida e si struttura attraverso le pratiche e che si nutre della gioia della creazione. Siamo segni d’aria entrambi, uso questo dato come categoria euristica, archetipica. Nutriamo una propensione a stringerci affettivamente grazie alla condivisione di immaginari e di stimoli intellettuali che si stratificano e consolidano poi in forme di sodalizio, amicizia, amore.
Enzo è un artista rigoroso e insieme generoso, con una grandissima curiosità per l’altro e un desiderio di incontro intellettuale con i suoi collaboratori che sostiene con grande forza. Ho iniziato con lui la mia prima esperienza professionale nella danza quando, come studente e performer, cercavo un lavoro per mantenere la mia pratica artistica. È stato un incontro per me fondativo. I nostri universi e riferimenti si nutrivano reciprocamente: io provenivo dai centri sociali, dal mondo dei free party, dei rave illegali, dal punk, dal buto, e avevo una fortissima attrazione per l’universo della notte, per le pratiche di body manipulation, per la cultura industriale, per tutto quello che riguardava il corpo in termini di presenza e alterazione. Molte di queste visioni le ritrovavo in lui, nel suo lavoro, nel suo immaginario e nella sua biografia. Il linguaggio di Enzo spaziava dall’esoterismo al pop, dalla Factory di Warhol all’universo del glamour e della moda, dal punk alla new wave alle sonorità elettroniche e sperimentali, dal classico a Scelsi, dalle notti berlinesi alla borgata romana degli anni ’60-’70. Questi mondi sono diventati negli anni parte del mio alfabeto.
Accanto a Enzo ho costruito la mia vocazione artistica e professionale, che concepisco come una forma di engagement, di impegno per l’altro, ossessione per la cura. Questo ardore, questa assonanza con l’impalcatura drammaturgica e, direi, architettonica del lavoro, questa veemenza nel sostegno e capacità di resistenza è forse quanto oggi riporto in termini metodologici, dall’esperienza di organizzatrice e assistente, nella mia pratica di curatrice e di dramaturg. 

Cosimi confessa: «Non ho mai ritenuto importante la presenza di un drammaturgo sul mio lavoro, anche perché ritengo che la parte più intrigante della mia pratica artistica sia proprio la costruzione della drammaturgia. […] Ho gli strumenti per poter elaborare un sistema, un metodo di lavoro, un dispositivo che mi permette di affrontare la coreografia e la drammaturgia in varie modalità». Come gli hai fatto “cambiare idea”? Che cos’è per te la drammaturgia della danza?

La collaborazione alla drammaturgia è cominciata con Forse c’è abbastanza cielo su questi prati, coprodotto da Romaeuropa Festival, che debuttò nell’autunno del 2019. Da quel momento a oggi Enzo mi ha chiesto di collaborare come dramaturg. Credo che l’esigenza sia nata per diversi motivi. Si tratta di lavori concepiti come opere fuori formato, sulle soglie della performance o dell’installazione. Enzo cercava nuove dimensioni di ricerca sullo spazio e sul tempo e desiderava mettere in discussione la tendenza verticale, quasi aristotelica, della sua concezione drammaturgica. In questo senso penso nutrisse il desiderio di uno sguardo con cui confrontarsi. Inoltre c’era la questione del testo, in particolare per quanto riguarda l’Orestea, che richiedeva alcune competenze specifiche. Enzo desiderava proseguire il cammino iniziato con Glitters in My Tears – Agamennone, in cui il linguaggio parlato, creato in quel caso grazie alla collaborazione degli interpreti Alice Raffaelli, Giulio Santolini e Matteo De Blasio, era molto presente.
Per la mia esperienza, la drammaturgia della danza è un atto, un processo di affiancamento al lavoro artistico e coreografico di un autore o di un’autrice. È una pratica di obnubilamento, di perdita o forse di adesione al linguaggio dell’altro, alle sfide che mette in campo in uno specifico lavoro. È un campo di negoziazione, dove, a partire dai desideri dell’artista, si possono esaminare, dilatare gli immaginari, forzare e penetrare le questioni estetiche, politiche, culturali e drammaturgiche alla base dell’opera. E farlo insieme. È un dialogo che avviene prima, durante e dopo ogni fase di creazione. Una ricerca a latere che mette in discussione, supporta, o incrina il lavoro dell’altro. È uno stare accanto al problema in ogni passo, una pratica ambientale e sistemica che spazia dal supporto alla scrittura scenica a quello sulle collaborazioni artistiche, sino all’analisi del testo e alla visione sullo spazio, per poi concentrarsi sulla drammaturgia vera e propria, sulla performance come testo, costruzione dello spazio e del tempo in relazione al corpo e al dispositivo di fruizione. Accompagnare la scrittura scenica di un lavoro in qualità di dramaturg per me implica il viverlo ostinatamente, dalla fase embrionale alle prime prove, ai pasti, ai momenti di distensione, alle serate con il gruppo di lavoro. Credo che quegli spazi interstiziali di rilascio della tensione siano molto importanti, e che restituiscano una nuova pelle, un nuovo profumo a quanto si è realizzato in prova. Sono un luogo in cui condividere una forma diversa di confronto.

“Coefore Rock&Roll”, foto di Miriam Alé

Nella sua ultima creazione Orestea – Trilogia della Vendetta (2019-2022), Enzo Cosimi ti coinvolge come dramaturg a partire dal secondo momento, Coefore Rock&Roll(2020), per la scrittura scenica e per la parte testuale. Come hai sviluppato queste due pratiche, nelle loro differenze e convergenze?

Nell’ambito di Coefore Rock&Roll emergevano due istanze: una legata al formato e allo spazio specifico in cui avremmo presentato il debutto, un concerto performativo da realizzare negli ambienti delle vasche della Pelanda a Roma in occasione del Romaeuropa Festival; una connessa al testo delle Coefore e agli interrogativi sull’opera eschilea, sul dilemma di Oreste, la sua relazione con il materno e il suo dubbio di posizionamento in bilico tra la vendetta del padre e l’amore per la madre.
Non abbiamo lavorato in termini scissi, però è vero che le questioni che ci ponevamo erano diverse: che cosa ci racconta oggi un testo come Le Coefore? A chi vorrebbe parlare questo coro? Cosa vorrebbe urlare, nel suo incitare a questo assassinio, al tabù più potente dell’umanità? Cosa ci raccontano queste voci rispetto a un imminente femminicidio? Come può un coro di donne incitare a un matricidio? Come possiamo porci di fronte a questo? Oreste, primo eroe moderno, in un bivio quasi amletico tra l’agire e il non agire, tra il vendicare il padre e il disonorare la madre, da quante voci è attraversato? È uno o un doppio? E il suo doppio chi è? Egli stesso? Apollo? Pilade? Molte domande hanno riverberato sia nella scrittura scenica sia nella scrittura testuale, iniziando via via a dialogare e ad alimentare visioni e soluzioni compositive e spaziali.
I ganci appesi negli spazi dell’ex-mattatoio, le vasche per lavare la pelle degli animali, le celle e la profondità del campo di visione hanno contribuito fortemente alla scrittura scenica del lavoro. L’idea di concerto performativo, voluta fortemente da Enzo, che vedeva il coinvolgimento della musicista Lady Maru, era intrinsecamente legata alla potenza del coro, di questo sabba in nero di sole donne. Una visione che richiamava la possibilità di una prospettiva femminista nei confronti dell’universo tragico che stavamo affrontando, aprendo nuove questioni. Sono cosi venuti in soccorso i riferimenti a King Kong Theory di Virginie Despentes, le analogie che l’autrice sviluppa tra il ruolo della madre nella nostra cultura e lo stato fascista.
Per contro, il testo presente nello spettacolo lavora per sottrazione, attraverso un sussurrato, una confessione registrata dalle voci di Alice e Enzo, dove emerge il dolore di questo legame. Una mia composizione poetica, brani di Eschilo, estratti da Sylvia Plath fanno da contrappeso alla violenza e all’eccesso dell’impianto scenico e sonoro svelando una violenza più sorda, intima ma non per questo meno potente e dolorosa. Pesi, misure, slabbrature, divengono lo strumento sottile attraverso cui ancorare l’azione coreografica, nella ricerca di mantenere un dialogo sottile tra testo originario e mondo contemporaneo.

La maternità è diventato l’aspetto più glorificato della condizione femminile. Anche in Occidente, è l’ambito in cui il potere della donna è maggiormente cresciuto. […] La mamma sa cosa è giusto per il suo bambino, ce lo ripetono in tutte le salse, quasi avesse questo potere intrinseco straordinario. Replica domestica di quanto si profila a livello collettivo: lo Stato, sempre più vigile, sa meglio di noi quello che dobbiamo bere, mangiare. Uno Stato che si pone come madre onnipotente è uno stato fascistoide. […] Lei sola sa punire, inquadrare, mantenere i bambini in stato di allattamento prolungato. […] Investire la madre di tutte le virtù significa preparare il corpo collettivo alla regressione fascista. 

(da King Kong Theory di Virginie Despentes, 2019)

In questi dialoghi fra tragico antico e mondo contemporaneo, quando e come è emersa l’idea di lavorare con l’intelligenza artificiale in Le lacrime dell’Eroe. Installazione performativa sulle Eumenidi? Come hai curato l’inserimento di questo elemento drammaturgico nel processo artistico?

Era un desiderio di Enzo quello di riflettere sui nuovi media in relazione alle Eumenidi, e soprattutto di collocare la tragedia nella contemporaneità. Il terzo capitolo dell’Orestea riguarda il processo attraverso cui si assolverà Oreste, e che vedrà la fondazione e l’istituzione dell’Areopago, primo tribunale ateniese: un passaggio dal potere arcaico e tribale a quello della nascente polis. Questo passaggio avviene attraverso l’assoluzione di un matricida. Per me è sempre stato un elemento sconvolgente, che svela il paradosso dell’istituzione democratica sin dalla sua origine.
L’idea iniziale era quella di creare una installazione multimediale dove, tra monitor, flussi di dati e infografiche, le azioni performative apparissero quasi miniaturizzate, all’interno di una sorta di teatro anatomico, un ring, un’aula processuale circolare, un panopticon che contenesse elementi legati alla casa: un roomba, un frullatore, piccolo oggetti per uso domestico. La casa degli Atridi, la madre come casa, la casa come ossessione dell’Occidente, il suo carattere perturbante, luogo rotto e oramai divenuto uncanny, inaccessibile, devastato, risuonano potentemente in tutta l’Orestea. È così che la domotica, l’ingresso di un nuovo potere, dell’informazione e dell’uso dei dati nella dimensione domestica, il potere oracolare degli oggetti, tra animato e inanimato (da Alexa a Google Home), cui affidiamo gusti, azioni, decisioni, hanno catturato la nostra immaginazione e sono diventati riferimento nel processo.
Il discorso sulla formazione del consenso, su come oggi si crea e riproduce, sulle forme di demagogia e populismo che si alimentano attraverso l’uso dei dati, ci riportava a una riflessione sull’uso dell’Intelligenza Artificiale. Ci siamo affiancati a Marcello Cualbu, artista, e Felice Colucci, programmatore, che hanno progettato appositamente una AI, nutrendola di dati e di testi, dai processi a fatti di cronaca, fino a film e altri riferimenti di vario genere. Abbiamo poi creato un canale Telegram con cui interrogarla, discutendo sulle sue possibilità drammaturgiche per quanto riguarda la creazione del testo, la sua funzione oracolare, affinandole un carattere preciso, il ruolo dell’Areopago, appunto, e verificando quanto potevamo spingerci oltre in questo.
Questi riferimenti sono emersi in giornate difficilissime di lavoro collettivo. Le tendenze erano diverse, e non era chiarissima l’intenzione comune. Emergevano venature più psicologiste insieme a inclinazioni di critica transfemminista al testo. Abbiamo lavorato per sottrazione, confrontandoci con un meccanismo creativo per niente liscio, docile, malleabile. Alla fine abbiamo deciso di affidare solamente il prologo e l’epilogo al nostro canale Telegram, stimolato da alcune domande che permettevano di giocare con la contraddittorietà della macchina. Si tratta di interrogativi piuttosto semplici, capaci di generare però risposte sempre spiazzanti, che in qualche modo sfidavano o mettevano in crisi ogni buon senso.

Materiali drammaturgici per “Le lacrime dell’Eroe. Installazione performativa sulle Eumenidi” di Enzo Cosimi

Che dramaturg sei quando riemergi dai lavori con Cosimi? Quali sono stati i momenti più stimolanti in questi processi di cura, di scrittura e di tensione negli spazi di relazione con altre artiste/i?

Mi viene da dire che sono sempre diversa. Dipende dal livello di conoscenza, empatia, dialogo che si attiva con l’artista e dalla sua attitudine nel lavoro. So che non potrei lavorare con chiunque. Penso che la collaborazione tra artista e dramaturg sia un atto di selezione reciproca, e che nasca da una affinità importante. Potrei definirla come una creatura chimerica, citando Daniela Cascella:

a fire-breathing monstrous creature made of three different parts, impossible in theory but real in the imagination and in the reading of the myth. […] It demands and proposes neologisms, a new vocabulary and wildly imaginative approach to reading and to writing criticism.

(da Nothing as We Need It: A Chimera, 2022)

Una creatura a più voci.
Attualmente sto lavorando con Valentina Medda a The Last Lamentation, progetto che viene realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council. Si tratta della realizzazione di un’opera video, in particolare una performance for the camera, che vede alcune fasi di costruzione attraverso step e studi di natura performativa: una lamentazione funebre per il Mediterraneo, concepita dall’artista come un cadavere, un corpo abitato da altri corpi, cui dedicare il piangere collettivo. La ricerca è partita in questa fase in Barbagia, per poi approdare sulle coste della Sardegna, dove saranno realizzati la performance e il video.
Ho conosciuto Valentina pochi anni fa e abbiamo iniziato a lavorare insieme molto gradualmente. Durante il lockdown l’ho invitata a partecipare a una serie di incontri promossi dalla Fondazione di Sardegna dedicati a curatori e curatrici, poi a Le Alleanze dei Corpi, un progetto che curo a Milano. Questa gradualità di conoscenza ci ha permesso di osservarci reciprocamente e di capire quale fosse lo spazio possibile di collaborazione. Abbiamo trovato assonanze inaspettate, e così, costruendo il processo di lavoro di The Last Lamentation, ci siamo avvicinate sempre più, sino ad arrivare a un coinvolgimento nella drammaturgia, in cui per ora stiamo muovendo i primi passi. Accompagno Valentina con un approccio curatoriale, per quanto riguarda la rete, le partnership, i rapporti istituzionali, l’incontro con il territorio, la possibilità di offrire una maglia di relazioni e contatti grazie anche a esperienze pregresse, che permettono di espandere la portata e la legacy del lavoro nei territori.
Abbiamo svolto insieme una prima fase di ricerca, con un metodo quasi etnografico, e contemporaneamente stiamo affinando ascolti, depositando in noi le memorie di rituali in estinzione, immaginando come mantenere, oggi, una complessità di livelli: le morti in mare, le morti delle grandi tragedie della contemporaneità, il pianto come atto di cura, l’emotività affidata alle donne, un rito che unisce le coste dell’Europa meridionale con quelle del Mediterraneo sudorientale, questo mare che diventa una camera a eco. Siamo in un dialogo costante sulla materia vivente di questo lavoro, che si apre e si sviluppa nel farsi, lo nutriamo attraverso riferimenti, scambi, riflessioni, nuove possibili estensioni progettuali. In questa alleanza nel plasmare la materia artistica, interviene a mio parere il ruolo di dramaturg, che credo si svelerà maggiormente nella fase di prove e di creazione vera e propria. Valentina usa spesso la parola “noi” parlando della costruzione di questo lavoro. È una cosa che mi stupisce sempre, la trovo una forma di agency, di ingaggio, di alleanza, per cui le sono molto grata. Sembrano dettagli, ma credo che proprio nel dettaglio ci sia l’essenza delle cose.

“The Last Lamentation” di Valentina Medda, foto di R. Kabalan

Come nel caso di Piersandra Di Matteo, anche tu sembri interpretare il ruolo di dramaturg in un orizzonte di ricerca poliedrica, di moltiplicazione dei piani artistici, culturali, politici, che sconfina quasi naturalmente nella curatela. Il progetto Le Alleanze dei Corpi, fin dal titolo butleriano, pare promettere già un pensiero drammaturgico, che si irradia in una programmazione in dialogo attento con la città e con i suoi corpi. Quanto servizio recano le relazioni con artiste e coreografi a queste alleanze più diffuse?

Potrei dire che, paradossalmente, nella definizione delle Alleanze dei Corpi emerge, più che l’esperienza di dramaturg, una scrittura drammaturgica vera e propria, che via via si trasforma in un organon, uno strumento, una creatura con una vita propria, forse mostruosa, a più teste, che soffia, brucia, batte, riposa, e si attiva attraverso il sistema e la pluralità di voci e relazioni. In questa creatura mostruosa e tentacolare, che si irradia nei corpi coinvolti, urbani, sociali e fisici (delle persone che ne prendono parte), viene alla luce un sistema complesso di micro e macro drammaturgie. L’allenamento alle dinamiche di movimento, la familiarità con la composizione coreografica, l’attenzione all’articolazione dello spazio e del tempo, la prossimità e l’insistenza sulle pratiche, la vicinanza alla composizione coreografica emergono in modo decisivo.
Nella composizione non ho regole precise. Sono molto lenta, attendo che un’immagine venga alla luce, si depositi e detti la linea. Così appare un titolo, che mi guida e fornisce un riferimento, uno scheletro, un punto da cui partire e a cui continuamente tornare. Emerge e si ossida spesso intorno a suggestioni legate a una mia ricerca o a un numero ristretto di opere e artistɜ con cui sono in connessione, definendone la struttura sia in termini di senso, sia in termini di spazio, contesto, politica, tempo. In questa fase interviene sempre una domanda sul contesto, sull’atterraggio nel territorio di riferimento, sul tempo previsto per le relazioni e la partecipazione, sull’ascolto dei desideri e dei bisogni. Interrogo costantemente quanto già realizzato, in un rapporto sottile tra approfondimento dei processi avvenuti e loro superamento. Guardo le crisi, i tasselli mancanti, le nuove aspirazioni. Ascolto le insoddisfazioni come un métal brulant, che preme sino a rompere la linea rispetto al sedimentato, per cercare di spingere più in là, di trovare un luogo più scomodo dove stare e allo stesso tempo un campo aperto e incolto dove lasciar posare e coltivare utopie.
Diverso è l’approccio nella microdrammaturgia del festival, se così si può dire, o meglio nel lavoro curatoriale con cui accompagno alcuni artisti nel processo. Questa dimensione è per me più prossima alla figura della dramaturg così come la incarno: si configura con un rapporto più delicato, appena fuori la pratica artistica. C’è un permesso da parte dell’artista di farti entrare nel territorio selvaggio della creazione. Un permesso che viene accordato o concesso e che non è mai dato definitivamente: il curatore deve essere attento nell’ascoltare e poi nel disporsi come contesto di risonanza. Questo ascolto è un allenamento costante, e insieme una forma di alleanza e di empowerment.
Nelle Alleanze dei Corpi, credo in virtù della sua natura ibrida, convergono tutti questi approcci. Non trattandosi di un festival ma di un progetto artistico, con una forte attenzione alla partecipazione, alle pratiche trasformative dei territori, si plasma in modo organico a seconda del momento, pur mantenendo vive le sue costanti resistenziali: le diseguaglianze di genere, la riflessioni sui confini urbani, linguistici, culturali che si inscrivono nei corpi, una cornice di pensiero alla base transfemminista, la cura.

 

Riccardo Corcione


in copertina: foto di Dietrich Steinmetz