Per quanto usino due stili molto diversi, lo spettatore di FEMINIST FUTURES trova facilmente dei punti di contatto fra All together di Michikazu Matsune e l’Atlante linguistico dei Sotterraneo. Anzitutto visivo: anche in questo caso i tre performer (Frans Poelstra ed Elizabeth Ward, oltre allo stesso Matsune) dialogano con uno schermo su cui sono proiettate parole. Ma stavolta le parole in questione sono nomi propri. E in questo caso l’azione performativa che lega parole e corpi è molto semplice: ricordare. Anche in questo caso, tuttavia, si tratta di azione, non di rievocazione logico-contenutistica: ricordare è un semplice modo di stare insieme, di presentificare una persona attraverso la prospettiva e la vita di un altro. Nello specifico, a turno, di ogni attore di All together.

Come accade spesso nelle performance di Matsune, è il dispositivo performativo che dà ritmo e detta la durata e la struttura di All together. Esso non è nient’altro che lo scorrere di un nome alla volta, sullo sfondo della scena. Su di esso si costruiscono gli interventi dei performer, prima singoli, poi a due e infine corali. Come già evidenziato, dal semplice ricordo verbale di una persona conosciuta in un dato momento della propria vita, si passa a ricordi via via più agiti: si ricorda con la voce, si ricorda con la vista, si ricorda con il corpo, si ricorda con movimenti e coreografie geometriche. La relazione con i nomi propri dà il via a dialoghi scenici di volta in volta più complessi, fino a veri e propri enactment di persone assenti: amici, familiari, celebrità, grandi maestri, volti che preferirebbero non incontrare più. I legami con i nomi instaurano una comunità allo stesso tempo invisibile e visibile. Per un attimo, anzi, in quella comunità performata, entrano gli stessi spettatori: come? È ovviamente la proiezione a chiamare nomi italiani o ignoti ai performer, che cercano fra il pubblico dei Giovanni e delle Mary.

Qual è il legame fra nome ed esistenza? Cosa permette ai performer di creare una comunità (in)visibile? Alla fin fine, non certo la memoria, non certo i piccoli quaderni che costituiscono i soli oggetti in scena insieme a tre sedie – per lo meno non del tutto. Un momento ci pare più rivelatorio di altri, in tal senso: nel mezzo di un ricordo, lo stesso Matsune mangia un intero panino e poi compie una piccola coreografia, per spiegare come ora il cheeseburger si muova con lui, dentro il suo stomaco. Il carattere relazionale dell’esistenza è esaltato con leggerezza e ritmi comici in All together, ma emerge con chiarezza quanto esso sia compenetrato al soggetto, quando lo si voglia chiamare in causa: proprio come il cheeseburger. Allora ciò che fa stare “insieme” le persone è l’apertura all’altro, è la responsabilità e la cura per l’altro che c’è in ognuno di noi, è questo movimento mentale e fisico. Se dei nomi propri fanno uno spettacolo, non è certo per la potenza del linguaggio, ma per un compenetrarsi qui e ora di esistenze e corpi: una vita sempre presente, sempre possibile.

Riccardo Corcione


ALL TOGETHER
concept & artistic direction Michikazu Matsune
performance Michikazu Matsune, Frans Poelstra, Elizabeth Ward
rehearsal assistance & feedback: Dorothea Zeyringer
photos Maximillian Pramatarov

Spettacolo visto in occasione di apap_Feminist Futures Festival