di e con Cecilia Bengolea, François Chaignaud, Marlene Monteiro Freitas e Trajal Harrel
visto al festival Uovo, Triennale di Milano _ 23 Marzo 2013
Belli, folli, spregiudicati, interessanti: gli autori e interpreti di (M)IMOSA – Cecilia Bengolea, François Chaignaud, Marlene Monteiro Freitas e Trajal Harrell – hanno ammaliato il pubblico del festival Uovo. In una città avara di occasioni per vedere danza contemporanea di qualità e di respiro internazionale a prezzi accessibili, i milanesi non hanno perso l’occasione e sono accorsi in massa alla Triennale di Milano. Il biglietto a posto unico ha tenuto il pubblico scalpitante alle porte della sala, ansioso – quasi come prima di un concerto rock – di conquistare una sedia con buona visuale.
L’atmosfera di ascolto partecipato ed entusiasta ha accompagnato tutta la performance: mentre François Chaignaud vagava per la sala – deliziosamente agghindato en travesti – veniva accolto da risate, commenti, applausi. È una partecipazione attiva che gli autori visibilmente cercano: si rivolgono spesso al pubblico facendo domande e lanciando provocazioni, scendono di continuo tra gli spettatori, li svegliano con i riflettori accesi sulla platea, in un passaggio costante e fluido tra scena e fuori scena.
Colpisce l’abilità dei quattro coreografi nel mischiare spunti ostentatamente pop a una ricerca performativa d’avanguardia; ed è un elemento che salta all’occhio soprattutto nel confronto con il panorama della danza italiana, spesso iper-raffinata ma distante e autoreferenziale. Si tratta di un melting-pot cercato fin dalla creazione dell’opera: lo spunto di ricerca è quello delle competizioni di ballo nelle dance hall di Harlem degli anni ’60, rivisitate alla luce della danza postmoderna newyorkese. Hanno allora diritto di cittadinanza falli finti che emergono dalle calzamaglie e imitazioni di videoclip (Cecilia Bengolea diventa una esilarante Kate Bush, mentre in Monteiro Freitas si può riconoscere Prince), perizomi fluo e seni posticci.
Lo show dura oltre due ore ed è un fiume in piena in cui scorrono chicche e momenti meno riusciti, immagini geniali e ridondanze; la struttura ‘a pannelli’ – che vede susseguirsi singoli exploit, dalla danza, al canto, al monologo – ben si adatta a uno spettacolo che richiama il contest, ma finisce alla lunga per stancare. C’è un solo momento in cui tutti gli interpreti si esibiscono insieme, ed è – inevitabilmente – uno dei passaggi più forti dell’intero spettacolo: i quattro, illuminati solo da luci ultraviolette, diventano sagome di cui restano visibili solo i bizzarri indumenti e i rossetti fluo (le loro labbra, isolate nel buio, fanno venire in mente quelle della sigla di The Rocky Horror Picture Show).
Quando poi riprende lo schema a sketch si ha la sensazione che lo spettacolo stia perdendo il suo crescendo, si comincia ad avvertire una certa stanchezza, e viene da pensare che dei 130 minuti proposti qualcosa si sarebbe potuto tagliare.
Ma il pubblico, che alla fine si alza in piedi per applaudire entusiasta i quattro bravissimi interpreti, non sembra aver sentito il problema.
Maddalena Giovannelli